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Pagina:Pavese - Dialoghi con Leucò.djvu/41

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il fiore 37



Ascoltava le storie di Deio e di Delfi, il Tifone, la Tessaglia, il paese degli Iperborei. Il dio parlava sorridendo tranquillo, come fa il viandante che credevano morto e ritorna piú esperto. Quel che è certo, il signore non disse mai del suo Olimpo, dei compagni immortali, delle cose divine. Parlò di sé, della sorella, delle Càriti, come si parla di una vita familiare — meravigliosa e familiare. Qualche volta ascoltarono insieme un poeta girovago, ospitato per la notte.

tànatos   Nulla di brutto in tutto questo.

eros   Nulla di brutto, e anzi parole di conforto. Iacinto imparò che il signore di Delo con quegli occhi indicibili e quella pacata parola aveva visto e trattato molte cose nel mondo che potevano anche a lui toccare un giorno. L’ospite discorreva anche di lui, della sua sorte. La vita spicciola di Amicle gli era chiara e familiare. Faceva progetti. Trattava Iacinto come un eguale e coetaneo, e i nomi di Aglaia, di Eurinòme, di Auxò — donne lontane e sorridenti, donne giovani, vissute con l’ospite in misteriosa intimità — venivano detti con noncuranza tranquilla, con un gusto indolente che a Iacinto faceva rabbrividire il cuore. Questo lo stato del ragazzo. Davanti al signore ogni cosa era agevole, chiara. A Iacinto pareva di potere ogni cosa.

tànatos   Ho conosciuto altri mortali. E piú esperti, piú saggi, piú forti che Iacinto. Tutti distrusse questa smania di potere ogni cosa.

eros   Mio caro, in Iacinto non fu che speranza, una trepida speranza di somigliarsi all’ospite. Né il Radioso raccolse l’entusiasmo che leggeva in quegli occhi — gli bastò suscitarlo -, lui scorgeva già allora negli occhi e nei riccioli il bel fiore chiazzato ch’era la sorte di Iacinto. Non pensò né a parole né a lacrime. Era venuto per vedere un