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120 1938


Ignora il dramma di chi ammette come lei la misurabilità di ciascuno ma non ci si vuole rassegnare. Ignora il dramma della volontà infinita. È, come tutti i medici, una maestra di saggezza.

Nelle sue pagine la vita è terribilmente chiara. Al senso delle cose immisurabili, al fantastico, sostituisce l’incantesimo del tranquillo fluire, dell’essere proprio una rosa una rosa una rosa.

«Dunque sono un infelice, e non è colpa mia né della vita» è la legge della tragica misurabilità, esaurita la quale si può morire tranquillamente.

24 ottobre.

Riprendo. Ma ora succede che proprio il raccontare un fatto e un personaggio, è fare l’oziosa creazione fantastica, perché a questo raccontare si riduce il concetto tradizionale di poesia. Per scrivere mirando a qualche altro scopo, ora bisogna proprio lavorare di stile, cercare cioè di creare un modo d’intendere la vita [il tempo nel suo fluire (cfr. 3 ottobre, III)] che sia una nuova conoscenza. In questo senso va accettata la mia antica mania di fare argomento della composizione l’immagine, di raccontare il pensiero, di uscire dal naturalismo.

Questo non è fantasticare; ma conoscere: conoscere che cosa siamo noi nella realtà. Ecco soddisfatta l’esigenza di credere avvenuto quello che stiamo per raccontare: rimane dunque vero che solo ciò che stimiamo realmente esistente (il nostro stile, il nostro tempo = l’oggetto della nostra conoscenza) vale la pena di essere scritto. Se miriamo a insegnare un nuovo modo di vedere e quindi una nuova realtà, è evidente che il nostro stile va inteso come qualcosa di vero, di proiettabile al di qua della pagina scritta. Altrimenti, che serietà sarebbe quella nostra scoperta? (Resta confutata la parentesi del 22 ottobre, I).

Bisogna raccontare sapendo che i personaggi hanno un dato carattere, sapendo che le cose avvengono secondo determinate leggi; ma il point del nostro racconto non devono essere né quei caratteri né quelle leggi.