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270 1944


17 luglio.

La peste di descrizioni naturali, di richiami compiaciuti alle cose e al mondo, nelle opere d’arte nasce da un equivoco: l’opera, che vuol essere un oggetto naturale tra gli altri, crede di riuscirci rispecchiandone quanti piú può. Ma la natura di uno specchio non sono le parvenze che ne affiorano. Queste sono soltanto la sua utilità.

Quando si dice che la poesia è ritmo non copia, s’intende appunto definirne la natura. Ecco perché la nostra poesia vuole eliminare sempre piú gli oggetti. Tende a imporsi come oggetto essa stessa, come sostanza di parole. La sensualità verbale dannunziana e in genere decadente scambia ancora questa sostanza con la carne delle cose. È un’onomatopeica universale. Da noi l’elocuzione si fa casta e scarna, trova il suo ritmo in qualcosa di ben piú segreto che non le voci delle cose: quasi ignora se stessa e, se dobbiamo dir tutto, è parola a malincuore. Quest’è la nostra inquietudine: sospetto verso la parola che è al tempo stesso unica nostra realtà. Cerchiamo la sostanza di ciò che non ci convince: per questo esitiamo e soffriamo.

Anche il mio libro — Lavorare stanca — ha oscuramente fatto questo. Cercava l’oggetto scarnendo la parola, tendeva cioè a una sostanza che non era piú oggetto né forse parola. Voleva un ritmo — né canto né sensualità verbale. Per questo evitò il verso musicale e trattò parole neutre. Ebbe l’unico torto d’indulgere alla frase colorita di «parlato», ch’è un altro modo di specchiare la natura. Ma se ne liberò a poco a poco, costretto dal ritmo che sempre meglio radioscopava le cose. Poi nelle prose ricademmo nel parlato. Perché? Perché qui ci mancava l’appoggio del ritmo. Ora il problema è penetrare alla sostanza presupponendo quest’appoggio.

Vita dell’inconscio. L’opera che si riesce a fare, è sempre un’altra cosa. Si va avanti, di altra cosa in altra cosa, e l’io profondo è sempre intatto; se appare spossato, è soltanto la fatica che lo scuote e confonde come un’acqua che s’intorbida, ma poi si schiarisce e torna, ambiguo, a trasparirne il fondo uguale. Non c’è modo di portarlo alla superficie; la superficie è sempre soltanto un gioco vano di riflessi d’altre cose.