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Le maestrine

Le mie terre di vigne, di prugnoli e di castagneti
dove sono cresciute le frutta che ho sempre mangiato,
le mie belle colline — hanno un frutto migliore
che fantastico sempre e non ho morso mai.
Quando si hanno sei anni e si viene in campagna
solamente l’estate, è già molto riuscire
a scappar sulla strada e mangiar frutta acerba
coi ragazzotti scalzi, in pastura alle vacche.
Sotto il cielo d’estate, distesi nei prati,
si parlava di donne tra un gioco e una lite
e quegli altri sapevan misteri e misteri
sussurrati ghignando nell’ozio divino.
Sulla strada davanti alla villa si vedono ancora
— la domenica — parasolini passar dal paese;
ma è lontana la villa e non c’è piú ragazzi.

Mia sorella era allora ventenne. Venivano sempre
sul terrazzo a trovarci bei parasolini,
vesti chiare d’estate, parole ridenti:
maestrine. Parlavan magari di libri
imprestati tra loro — romanzi d’amore —
e di balli, di incontri. Io ascoltavo inquieto
e non pensavo ancora alle braccia scoperte,
ai capelli assolati. Il mio solo momento
era quando sceglievano me per guidare il gruppetto
a mangiare dell’uva e sedersi per terra.
Mi scherzavano insieme. Una volta mi chiesero
se non avevo già l’innamorata.
Fui seccato, piuttosto. Io stavo con loro

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