Pagina:Pavese - Poesie edite e inedite.djvu/207

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II.     A proposito di certe poesie non ancora scritte

È un fatto che va osservato: dopo un certo silenzio, ci si propone di scrivere non una poesia ma delle poesie. Si giudica la pagina futura come un’esplorazione rischiosa di quello che da domani in poi sapremo fare. Parole taglio situazione ritmi da domattina ci promettono un campo piú largo del singolo pezzo che scriveremo.

Se questo slargo sul futuro mancasse di orizzonte, e cioè coincidesse con tutto il nostro futuro possibile, sarebbe il normale desiderio di campare e lavorare a lungo, e buona notte. Ma succede che una certa dimensione o durata spirituale gli è implicita, e per quanto non se ne vedano i limiti questi sono presenti nella stessa logica interna della novità che stiamo per creare. La poesia che stiamo per scrivere aprirà delle porte alla nostra capacità di creare, e noi passeremo per queste porte — faremo altre poesie —, sfrutteremo il campo e lo lasceremo spossato. Qui è l’essenziale. La limitatezza, cioè la dimensione, della nuova provincia. La poesia che faremo domani ci aprirà alcune porte, non tutte le possibili: verrà cioè un momento che faremo delle poesie stanche, vuote di promessa, quelle appunto che segneranno la fine dell’avventura. Ma se l’avventura ha un principio e una fine, vuol dire che le poesie in essa composte formano blocco e costituiscono il temuto canzonierepoema.


Non è facile accorgersi quando una simile avventura finisca, dato che le poesie stanche, o poesie-conclusione, sono forse le piú belle del mazzo, e il tedio che accompagna la loro composizione non è gran che diverso da quello che apre un nuovo orizzonte. Per esempio, Semplicità e Lo steddazzu (inverno 1935-36) le hai composte

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