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Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 1, Einaudi, 1961.djvu/109

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Ma per partire aspettammo il mattino perché Monticello è un paese di scarto che di notte non passano i treni. Aspettando pensavo che, se avessi attaccata la giacca sopra quella di Pieretto, sarebbe subito finito il discorso che a guardarci nello specchio sembravamo fatti uno per l’altro e che lei mi aveva sempre voluto; e invece avrebbe detto che non valevamo, né lei né io, l’amico che prendevamo in giro, e mi avrebbe tormentato e messo su contro Pieretto. Meglio che si svegliasse sola e facesse un po’ di magro, come faceva Pieretto.

Una volta sul treno, venne subito giorno e partimmo proprio nel momento, scommetto, che Michela si girava sotto il lenzuolo. Talino si era messo a dormire, con la testa sul fagotto e il fazzoletto per traverso, e mi strizzava l’occhio come se ridesse ancora per avermela fatta. Mancavano solo le mosche e poi c’era la stalla, l’odore di stalla e il vitello. Lui sembrava il vitello, ma dei momenti pensavo che ce ne fossero due.

Una bella cosa era il fresco e che viaggiavamo soli, e mi sfogavo a fumare. A Bandito saliva gente, ma erano di campagna e andavano al mercato di Bra. Talino se li guardava con tutti due gli occhi, e quando fanno per attaccare discorso con me, dico: — Parlate con lui.

A Bra scendiamo per cambiare e c’era da aspettare quasi un’ora.

— Non vorrai mica sederti nel giardino, — gli faccio; — sono stufo di giardini. Ma Talino tira fuori tre lire e mi dice che erano le mie cinque, che a Torino non aveva trovato il fatto suo e che sapeva un posto a Bra dove bastava due e cinquanta. — Possibile? — dico. Sarà robetta di campagna.


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