Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 1, Einaudi, 1961.djvu/18

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Stefano cominciava a guardarsi dattorno. Tutto era grigio e ostile, tranne l’aria e la distanza delle montagne. Qualche volta nei campi s’intravedeva un contadino. Qualche volta sotto la strada ce n’era uno accovacciato. Stefano, che aveva camminato pieno di rancore provava uno scatto di pace dolorosa, di triste allegrezza, e si fermava e lentamente ritornava.

Rientrando nel paese era quasi lieto. Le prime case avevano un volto quasi amico. Riapparivano raccolte sotto il poggio, caldo nell’aria limpida, e sapere che davanti avevano il mare tranquillo le rendeva cordiali alla vista quasi com’erano state il primo giorno.

All’entrata del paese, tra le prime casette, ce n’era una isolata fra lo stradale e la spiaggia. Stefano prese l’abitudine di darvi un’occhiata ogni volta che passava. Era una casa dai muri in pietra grigia, con una scaletta esterna che portava a una loggetta laterale, aperta sul mare. Per un riscontro di finestre — insolitamente spalancate — appariva, a chi guardasse dall’alto della strada, come forata e piena di mare. Il riquadro luminoso si stagliava netto e intenso, come il cielo di un carcerato. C’erano sul davanzale dei gerani scarlatti, e Stefano si fermava ogni volta.

La sua fantasia diede un balzo quando vide un mattino su quella scaletta una certa ragazza. L’aveva veduta girare in paese — la sola — con un passo scattante e contenuto, quasi una danza impertinente, levando erta sui fianchi il viso bruno e caprigno con una sicurezza ch’era un sorriso. Era una serva, perché andava scalza e a volte portava acqua.

Stefano si era fatta l’idea che le donne di quella terra fossero bianche e grassocce come polpa di pere, e quell’incontro lo stupiva. Nella reclusione della sua bassa catapecchia, fantasticava su quella donna con un senso di libertà e di distacco, affrancato, per la stranezza stessa dell’oggetto, da ogni pena di desiderio. Che ci fosse un rapporto tra la finestra dei gerani e la ragazza, allargava arricchendolo il gioco del suo stupore.

Stefano passava disteso sul letto le ore piú torride del pomeriggio, seminudo per il gran caldo, e il riverbero bianco del sole gli faceva socchiudere gli occhi. Nel fastidio e nel ronzio di quell’immobilità, si sentiva vivo e desto, e a volte gli accadeva di tastarsi l’anca con la mano. Tali appunto, magri e forti, dovevan essere i fianchi di quella donna.

Fuori, oltre la ferrata, nascosto da un terrapieno c’era il mare


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