Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 1, Einaudi, 1961.djvu/293

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lasciammo la macchina all’albergo e facemmo insieme quattro passi. Costeggiavamo il mare. Parlammo dei nostri amici, quasi senza volerlo. Guido spiegò il viaggio di Doro e il suo ritorno inaspettato tirando in ballo l’artista inquieto. Curioso come Doro fosse riuscito a convincerli tutti della serietà di quel suo gioco. Si parlava persino, nel crocchio quotidiano, dell’opportunità d’indurlo a esporre e a farsi dell’arte quel che si dice una professione. — Ma certo, glielo dico sempre anch’io, — interloquiva Clelia volubile.

— Roba da matti, — disse Guido quella sera.

— Ma Doro scherza, — dissi.

Guido tacque per qualche passo — aveva i sandali e procedevamo lenti, come due frati — poi si fermò e dichiarò brusco: — Io conosco quei due. So quel che fanno e quel che vogliono. Ma non so perché Doro dipinga dei quadri.

— Che male c’è? lo distrae.

C’era di male che, come tutti gli artisti, Doro non contentava la moglie. — Sarebbe a dire? — Era a dire che il lavoro cerebrale e nervoso indeboliva la potenza virile, ragione per cui a ogni pittore toccano periodi di depressione tremenda.

— Non agli scultori?

— A tutti quanti, — brontolò Guido, — a tutti i matti che si sforzano il cervello e che non sanno quand’è tempo di smettere.

Eravamo fermi davanti all’albergo. Gli chiesi che vita bisognava dunque condurre secondo lui. — Vita sana, — disse. — Lavorare ma senza foga. Svagarsi, nutrirsi e discorrere. Soprattutto svagarsi.

Mi stava davanti dondolandosi sui piedi, con le mani dietro la schiena. La camicia aperta a risvolti sul petto gli dava un’aria sorniona di adolescente che la sa lunga, di quarantenne rimasto adolescente per scioperataggine. — Bisogna capire la vita, — disse ancora, strizzando l’occhio con un’espressione di disagio. — Capirla quando si è giovani.


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