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Non la toccai, non le parlai per consolarla.
— C’è da fare, — dissi. — Tutto questo è finito.
Quel pomeriggio m’invitò Scarpa all’osteria. — Traversiamo la strada, — diceva. — Meglio farsi vedere che no.
Ci sedemmo in un cantuccio sotto i mirti. Mandammo Pippo a comprarci un toscano e comandammo un po’ di vino. — Con questa storia, — lui diceva, — vivi al chiuso e poi viaggia e poi corri, mai che posso allungare le gambe e pigliarmi una festa.
Mi parlò di una voglia che aveva — buttarsi in campagna, allevare i maiali, non muoversi piú. — Il male è che quando mi fermo c’è sempre la guerra. O degli altri o la nostra, c’è sempre. Una volta la casa l’avevo. Passato.
— Tu ne hai troppe di case, — mi disse. — Stacci attento, ne ho visti sudare.
— È che una storia non finisce mai a tempo, — gli risposi. Questa volta credevo di averla chiarita.
Scarpa rideva con quegli occhi. — Non lo sai che una storia torna almeno due volte? Prima sul serio, poi per burla. È come un morto, un annegato, che ritorna a galleggiare.
Avevo voglia piú di bere che di ridere. Fortuna che Scarpa discorreva anche per me. Quella cosa che Linda mi aveva gridato — che per me una donna era solo un capriccio — era vera, e l’aveva sentita anche lui. «Devo parlargliene» pensai.
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