Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 1, Einaudi, 1961.djvu/457

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Mi venne in mente che Carletto aveva detto delle cose come queste. Glielo dissi.

— Se tu non sapessi com’è, — mi spiegò, — non saresti un compagno. Ma altro è saperlo, altro sapersi regolare. Tutti siamo borghesi quando abbiamo paura. E chiuder gli occhi e non vedere il temporale, è soltanto paura, paura borghese. Che cos’è, se non questo, il marxismo: veder le cose come sono e provvedere?

Mi spiegò che in Italia i borghesi facevano un gioco. «Bravi ragazzi, — ci dicevano i borghesi, — si sta male anche noi. Mettiamoci insieme e diciamo al governo che basta. Conviene a noi ma piú a voialtri. Guardate all’estero i cattivi cosa fanno. State con noi, vi salveremo».

— E invece, — disse quella notte, concludendo, — bisogna salvarsi o morire con gli altri. La guerra di Spagna è perduta.

Il giorno dopo venne Gina e ci svegliò. Io mi misi al lavoro; lui stette nell’orto a lavarsi la roba. Chiesi a Gina che cosa dicevano le donne in casa. Lei mi disse ridendo:

— Sono stupiti che dormi con lui.

— L’hanno assunto Carletto al teatro?

— Questa sera ci vogliono a cena.

Per tutto il giorno non pensammo a quell’invito. Scarpa stette tranquillo sul letto o nell’orto. Avevamo deciso di andare a passeggio col buio, tanto per fare qualche cosa, e bere un litro, quando arriva un ciclista con le gomme a tracolla. Lo conoscevo, era di quelli dell’Aurelia. — Il padrone ha parlato, — ci disse. — Stanno arrestando della gente. I compagni han deciso che Scarpa non resti in città. Devo portarlo alla stazione di Trastevere.

Scarpa disse: — Fortuna che ho lavato la roba.

Si rivestí, posò la tuta e diede un bacio a me e alla Gina.

— Non scordarti i compagni di Spagna, — mi disse, e partí.


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