Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 1, Einaudi, 1961.djvu/61

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Di nuovo parve a Stefano che tanti pensieri l’attendessero, che tante futili cose gli fossero accadute; ma non sapeva indursi a meditarle, e fissò gli occhi sulla porta. Il passo di Giannino frusciò nel cortile, poi si smorzò sul sentiero che saliva, costeggiando la casa, allo stradale. Per l’umido vano della porta giunse il tonfo del mare.

Giannino gli aveva lasciato un sentore azzurrognolo di pipa, quasi pigiasse nel bocciuolo per fumarla la sua stessa barbetta. Misto al fresco della notte, quel filo diffuso sapeva d’estate trascorsa, matura, di afe crepuscolari e di sudore. Il tabacco era bruno, come il collo di Concia.

Sarebbe tornata Elena? La porta era aperta. Anche questo ricordava la cella: chi s’affacciava allo sportello poteva entrare e parlargli. Elena, il capraio, il ragazzo dell’acqua, e anche Giannino, potevano entrare, come tanti carcerieri, come il maresciallo che invece si fidava e da mesi non veniva piú. Stefano era stupito di tanta uniformità in quell’esistenza cosí strana. L’immobile estate era trascorsa in un lento silenzio, come un solo pomeriggio trasognato. Di tanti visi, di tanti pensieri, di tanta angoscia e tanta pace, non restavano che vaghi increspamenti, come i riflessi di un catino d’acqua contro il soffitto. E anche l’attutita campagna, dai pochi cespugli carnosi, dai tronchi e dalle rocce scabre, scolorita dal mare come una parete rosa, era stata breve e irreale come quel viso d’Elena sbarrato dai vetri. L’illusione e il sentore di tutta l’estate erano entrati quietamente nel sangue e nella stanza di Stefano, come vi era entrata Concia senza che i suoi piedi bruni varcassero la soglia.


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