Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 1, Einaudi, 1961.djvu/67

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donna vestita e accollata, che piange davanti a un uomo nudo? L’istante era passato, e nel buio quel corpo s’era cosí frettolosamente rivestito, che a Stefano restava il desiderio di carezzarlo ancora, di vederlo, di non averlo perduto. Stefano si chiese se quei baci furiosi, se quell’abbraccio in piedi accanto al letto, Elena glieli aveva dati per vendicarsi, per ridestare un desiderio da non saziare mai piú. In questo caso, Stefano sorrise, Elena aveva fatto i conti senza la sua sete di solitudine. Poi, siccome era buio, smise di sorridere e strinse i pugni.

Nel suo disfatto dormiveglia Stefano pensava a tutt’altro: non riusciva ad afferrare che cosa. Rivoltolandosi nel letto pesto, temette che l’insonnia sarebbe durata: quest’era un incubo piú vero degli antichi. Strinse la guancia con pazienza al cuscino e intravide il pallore dei vetri. Mormorò intenerito: — Ti compiango, mammina, — e si fece molto buono, e fu felice d’esser solo.

Allora afferrò questo pensiero: si resiste a star soli finché qualcuno soffre di non averci con sé, mentre la vera solitudine è una cella intollerabile. Ti compiango, mammina. Bastava ripeterlo, e la notte era dolce.

Poi sopraggiunse il treno col suo sibilo selvaggio, il treno di tutte le notti, che lo sorprese a occhi socchiusi come un uragano. I lampi dei finestrini durarono un istante; quando tornò il silenzio, Stefano assaporò adagio lo spasimo della vecchia consueta nostalgia ch’era come l’alone della sua solitudine. Veramente il suo sangue correva con quel treno, risalendo la costa ch’egli aveva disceso ammanettato tanto tempo fa.

Il pallore dei vetri era tornato uguale. Adesso che l’aveva cacciata, poteva intenerirsi su di lei. Poteva anche rimpiangerla, fin che il suo sangue spossato era calmo, pensò balbettando.


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