Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 1, Einaudi, 1961.djvu/91

Da Wikisource.


Ripartita la piccola donna — che Stefano non aveva toccato, pur chiudendosi con lei qualche minuto per non essere scortese verso Gaetano — a Stefano accadde un fatto che la sua fantasia interpretò infantilmente come un oscuro compenso della Provvidenza. Trovò sul suo tavolo, rientrando la sera, un mazzetto di fiori rossi, ignoti, in un bicchiere, e accanto un piatto, sotto un altro piatto capovolto, di carne arrostita. La stanza era rifatta e spazzata. La valigia, sul tavolino nudo, piena fino all’orlo di biancheria lavata.

Nei pochi istanti ch’era stato nel covo, Stefano senza sedersi sul materasso aveva chiesto alla donna se era stanca, le aveva dato da fumare e, pur sapendo di farlo solamente per disgusto, s’era astenuto da lei. Le aveva detto: — Vengo solo a salutarti, — sorridendo per non offenderla; e l’aveva guardata fumare, cosí piccola e grassa, i capelli viziosi sulle spalle, il reggiseno rosa e innocente, dal ricamo consunto.

E adesso, in quella riconciliazione che Elena gli proponeva col mazzetto di fiori, Stefano vide un’ingenua promessa di pace, un assurdo compenso, che piú che da Elena gli veniva dalla sorte, per la sua buona azione. Naturalmente Annetta l’aveva rispettata per semplice disappetenza, ma Stefano non fece in tempo a sorridere della sua ipocrita ingenuità, che lo prese un terrore. Quello della spiaggia, del ficodindia, del succo verde penetrato nel sangue. Il sospetto della mattina che aveva saputo di Giannino e camminato indocile sentendosi ghermire dallo spirito di quella terra. «Meno male che stavolta non piango».

Non solo non piangeva, ma la sua agitazione aveva qualcosa di gaio e d’irresponsabile. Che una buona azione potesse venire oscuramente premiata da un mazzo di fiori, l’aveva sempre temuto. Ma ecco che adesso poteva dare un nome alla cosa: superstizione, crassa superstizione, quella dei villani che levavano il capo a quel cielo e sbucavano sull’asino da sotto gli ulivi.

Mortificato, Stefano cercò di valutare il gesto di Elena, poiché ormai sapeva di averla in sua mano e poterla chiamare o respingere, a piacere. Cenava intanto con la carne arrostita di quel piatto, e la trovava cosí saporita che pensò di mangiar subito l’arancia e tornar dopo alla carne.

C’era qualcosa di mordente nella carne, che Stefano risentí sulla lingua succhiando l’arancia. Pepare e drogare forte era l’usanza del paese e tanto piú sotto le feste, ma Stefano ebbe un altro sospetto.


87