Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 2, Einaudi, 1961.djvu/103

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chioccolii, tonfi vaghi. Pensavo alla grande pianura nella nebbia, nell’ombra, ai boschi rigidi, ai pantani, alla campagna. Vedevo i posti di blocco e le ronde. Quando la luce s’annunciava per le fessure dell’imposta, ero da un pezzo tutto sveglio, inquieto.

A poco a poco entrai nel giro del collegio; dopo quindici giorni assistevo i ragazzi nelle ore di studio. Me ne toccò un gruppetto di dodicenni, e fu fortuna perché dei maggiori qualcuno, in divisa di avanguardista volontario, avrebbe potuto farmi domande. Altri assistenti come me intravedevo in refettorio e nel cortile; ufficiali nascosti, si diceva, giovanotti del Sud separati dai suoi. Cercai di evitarli. Nelle ore di studio sorvegliavo i ragazzi che se ne stavano in pace al loro banco, tutt’al piú litigandosi per un pennino; io leggicchiavo per conto mio i loro libri. L’ora piú bella era il mattino, quando i ragazzi se ne andavano a scuola, e il collegio diventava vuoto e silenzioso. Allora i giovanotti assistenti se la battevano anch’essi, infilavano il portone, la viuzza, correvano Chieri, i caffè, le ragazze. A sentirli, era una bazza. Non pensavano ad altro. — Siamo uomini, — dicevano. La loro imprudenza mi faceva tremare. Ma la mattina silenziosa nel cortile o in un’aula vuota, leggicchiando o guardando le nuvole, seguendo il sole sotto gli archi, mi ridava un respiro, una calma. Bastava una visita o un passo perché sparissi dietro un angolo, adocchiassi la scaletta che metteva sul tetto. Tuttavia troppe volte ormai mi ero allarmato a vuoto, per patirci gran che. La stessa cappella poteva servirmi, perché metteva in sacrestia e di qui in una chiesa aperta in piazza. Ma non tutti se ne andavano dal collegio la mattina, qualche prete appariva e spariva sotto il portico; sovente parlavo con loro. Uno ce n’era che ascoltava la radio, padre Felice, e mi dava le notizie e ci scherzava con un fare infantile e impassibile. Scorreva il giornale con me. Per lui la guerra era una mena di «quei tali», un pasticcio clamoroso e lontano, una cosa che a Chieri importava ben poco. — Sciocchezze, — diceva, — queste campagne hanno bisogno di concime e non di bombe — . Passarono un giorno nel cielo due o tre formazioni nemiche, luccicanti d’argento; tremava la terra ai motori, il fragore copriva le nostre voci. Padre Felice corse a vederli, suonò lui stesso la campana dell’allarme, qualche altro prete corse fuori, voleva scendere in cantina. — Se venivano a Chieri, eravamo già morti, — disse lui strattonando la fune. Poi si sentirono esplosioni in lontananza. Padre Felice tendeva l’orec-


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