Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 2, Einaudi, 1961.djvu/121

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trovar tutto come prima, come una stanza stata chiusa. Era per questo, non soltanto per vana prudenza, che da due giorni non osavo nominare il mio paese; tremavo che qualcuno dicesse: «È bruciato. C’è passata la guerra».

La strada si mise in discesa, poi scavalcò un’altra collina. Lassú, se Dio vuole, c’era un borgo e un campanile. Mi fermai poco prima delle case, seduto su un mucchio di ghiaia; tirai fuori il mio pane. «Passerà qualche donna, un carretto».

Dal paese venivano le voci del mezzodí: tonfi di stalla, un gridio di bambini, sciacquare di secchi. Un camino fumava. Adesso il sole aveva rotto le nubi, e dappertutto scintillava: i versanti lontani vaporavano come letame fresco. C’era un odore di stalla, e di catrame, di caldo.

Ero a mezza pagnotta, che qualcuno comparve sulla strada. Due giovanotti, ispidi e bruni, in calzoncini, con un corto fucile puntato. Non ero in piedi, che li ebbi davanti.

— Dove andate? — uno disse.

— Nella valle del Belbo.

— A che fare?

Avevano un tondo berretto e una coccarda tricolore. Mentre parlavo, mi guardavano le scarpe. Sentii tastarmi il sacco sulle spalle e indietreggiai.

— Ferme le mani, — disse il primo.

Sorrisi appena. — Vengo da Chieri, — balbettai, — vado a casa.

— Fatti mostrare i documenti.

Feci per mettere la mano in tasca. Quel primo che aveva parlato, mi fermò con la canna. Sorrise calmo. — Ho detto fermo, ripeté.

Mi mise lui la mano in tasca, tirò fuori le carte. L’altro diceva: — Cosa fate qui?

Mentre sfogliavano le carte, io fissavo il paese. Un volo di rondini passò sopra i tetti. Dietro la testa dal berretto tondo c’era il cielo e i versanti lontani, boscosi. Di là da quei boschi ero a casa.

Il primo che aveva parlato osservava la tessera.

— In che giorno sei nato?

Lo dissi.

— Professione?

Lo dissi.

— Che paese?


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