Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 2, Einaudi, 1961.djvu/189

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XII.

Tutti i giorni scendevamo al pantano e soprattutto la mattina avviandoci si discuteva e si rideva. Era bello sotto certi versanti trovare prati ancora fradici di guazza; a volte, nella buca già rovente, la terra sotto la schiena e le gambe sentiva ancora bagnato e notturno. Adesso sapevamo ogni cantuccio della macchia, ogni luce, ogni strepito o fruscio del mattino. C’era il momento nell’afa quando passava un nuvolone bianco, che l’acqua diventava opaca, e le immagini capovolte della parete, di qualche fiore, del cielo, si facevano piú intense sul risalto dell’ombra.

Quel bagno era adesso per noi quasi un vizio, benché fossimo ormai neri dappertutto. La prima domenica che, invece di andarci, facemmo mezzogiorno davanti alla chiesa tra la folla festiva, prendendo la messa sulla soglia, tra il va e vieni dei ragazzotti e dell’organo e delle campane, mi mancò molto di non essere nudo e schiacciato dal sole e sentirmi la terra sotto. Pensai cose che non dissi a nessuno.

A Pieretto che guardava sornione la nuca d’Oreste, bisbigliai: — Te l’immagini questa gente, nuda al sole come noi?

Non batté ciglio, e tornai ai miei pensieri. Con Oreste ebbi una discussione nella vigna (passavamo i pomeriggi a San Grato, e Pieretto quel giorno era in giro): se esiste nelle campagne un cantuccio, una riva, un incolto dove nessuno abbia mai messo piede, dove dal principio dei tempi la pioggia, il sole e le stagioni si succedano all’insaputa dell’uomo. Oreste diceva di no, non c’è un anfratto né un fondo di bosco che la mano o l’occhio dell’uomo non abbiano disturbato. Almeno i cacciatori, e in altri tempi i banditi, sono stati dappertutto.


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