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Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 2, Einaudi, 1961.djvu/191

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(Ero io che avevo voluto che andassimo a messa; per un riguardo alla famiglia, nient’altro).

— Non andiamo al Mulino quest’oggi?

Tutti i giorni scendevamo dal poggio, nella conca dov’era l’altra cascina; giravamo sull’aia, dietro al rustico; il padre sbucava dai portici e ci offriva da bere. Ma il bello del Rossotto era il taglio del fieno, i prati profondi di trifoglio, i branchi d’oche. Verso sera giocavamo una mano alle bocce coi garzoni, Pale e Quinto; e Oreste andava per affari alla stazione.

— Secondo me, — diceva Pieretto, — qui puzza. Da Genova tutti i giorni impostava.

Oreste, a parlargliene, rideva e scuoteva la testa. E lo stesso sorriso ci fece quando, passando davanti a una casa fiorita di gerani, lungo la ferrata, gridò un saluto, e una voce femminile fresca e allegra gli rispose. Lui ci disse di procedere e scantonò.

— Allora, — fece Pieretto, quando Oreste spuntò sull’aia, — è la figlia del capostazione?

Oreste rise ancora, e non disse parola. Ma c’era, in quella conca del Mulino, qualcosa come un cielo propizio. Perfino all’incrocio del passaggio a livello, dove sostavano i carri e le bestie stallavano, si respirava una diversa gentilezza: le casette e l’aiuola della Stazione facevano pensare a una periferia cittadina, alle sere di maggio in fondo ai viali quando le ragazze passeggiano e folate d’odore di fieno investono la città. Anche i garzoni del Rossotto, por quanto scamiciati e scalzi, sentivano l’effetto dei treni e discorrevano di birra e di corse ciclistiche.

Non birra ma vino bevemmo la sera del taglio del fieno. Il padre di Oreste ci aveva detto: — Venite su prima di notte, — e con la giacca sulla spalla aveva preso la salita. C’era un certo movimento festivo alla Stazione, e Oreste aveva da farsi perdonare un’assenza piú lunga. Dalle cantine del Rossotto venne fuori una bottiglia, poi un’altra. Era un vino che lasciava la bocca sempre piú asciutta. Bevemmo noi tre, sotto il portico che dava sui prati. Non capivo se tanta dolcezza passava dal vino nell’aria o viceversa. Sembrava di bere il profumo del fieno.

— È vino di fragola, — disse Oreste, — dei miei cugini di Mombello.

— Noi siamo scemi, — diceva Pieretto, — cerchiamo giorno e notte il segreto della campagna, e il segreto l’abbiamo qui dentro.


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