Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 2, Einaudi, 1961.djvu/195

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tre bevevo o mangiavo — minestre, carne, peperoni, pane — mi chiedevo che effetto mi avrebbe fatto dentro il sangue quel cibo ruvido e ricco, quei succhi terrestri ch’eran gli stessi che passavano nel vento. Eppure Dina era bionda, minuta, una vespa. Anche Cinta, pensavo, doveva esser fragile e slanciata, una vite. «Forse mangia soltanto pane e pesche».

Venne un temporale che flagellò la campagna e rose le strade, per fortuna senza grandine. Fu il mattino che dovevamo partire col biroccio. Lo passammo in casa, da una finestra all’altra, fra donne e bambine che correvano e gemevano sotto i lampi. Il padre s’era messo gli stivali ed era subito uscito. Il crepitio dei sarmenti nel camino sbatteva in cucina una luce rossastra, che dava riflessi fantastici ai festoni di carta colorata, alla batteria di rame, alle stampe della Madonna e al ramulivo appesi al muro. Dai pezzi di coniglio sul tagliere insanguinato veniva un odore di basilico e di aglio. Tremavano i vetri. Qualcuno, di sopra, urlava di fermare le finestre. — E Giustina che è fuori! — gridavano sulla scala. — Figurarsi, — udii la voce della madre, — quella il riparo ce l’ha sempre.

Venne un momento di strana solitudine, quasi di pace e silenzio, nel diluvio. Mi fermai sotto la scala dove dal lucernario accecato volavano gocciole e odor d’acqua. Si sentiva la massa dell’acqua, quasi solida, cadere e muggire. Immaginavo le campagne fumanti e inondate, il pantano ribollente, le radici scoperte, e gli anfratti piú gelosi della terra penetrati e violati.

Finí com’era cominciato, d’un tratto. Quando uscimmo sul terrazzo con Dina, con le altre — dappertutto in paese si sentiva vociare — il cemento seminato di foglie aveva già chiazze d’asciutto. Tirava un vento di vallata, schiumoso, e le nuvole galoppavano. Il mare delle colline, quasi nero, pezzato di crete biancastre, pareva piú accosto del solito. Ma non le nuvole, non l’orizzonte mi stupirono. M’investí un sentore folle di fradicio, di frasche, di fiori schiacciati, un odor acre, quasi salso, di fulmine e di radici. Pieretto disse: — Che delizia! — Perfino Oreste respirava e rideva.

Quel mattino non andammo al pantano ma il padre ci chiamò a San Grato, a vedere i danni. C’era stata lassú strage di frutta e qualche tegola rotta. Insieme alle bambine raccogliemmo dal fango grandi cavagni di mele e di pesche inzaccherate. Tirammo su qualche tralcio abbattuto. Era bello vedere certi fiorellini minuti, sulle zolle sfatte della vigna, che al riprendersi del sole già si ergevano


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