Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 2, Einaudi, 1961.djvu/273

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II.

L’indomani mi portarono un mazzo di fiori, i primi narcisi. Sorrisi pensando che a Torino non avevo mai ricevuto fiori. Ma non era Torino che me li mandava. L’ordinazione veniva da quello scemo di Maurizio che aveva pensato di farmi l’improvvisata all’arrivo. Invece gli era andata male. «Succede anche a Roma», pensai. Vidi Maurizio sconsolato bighellonare per via Veneto dopo gli addii, e tra l’ultimo caffè e il primo aperitivo riempire il modulo della Fleurop.

Mi chiesi se la ragazza di ieri aveva avuto fiori nella stanza. C’è gente che per morire si circonda di fiori? Forse è un modo di darsi coraggio. La cameriera andò a cercarmi un vaso, e mentre mi aiutava a disporre i narcisi mi raccontò che sui giornali non parlavano del tentato suicidio. — Chi sa quanto spendono per tenerlo nascosto. L’hanno portata in una clinica privata... Ieri notte hanno fatto l’inchiesta. Dev’esserci un uomo di mezzo... La prigione ci vorrebbe, per chi riduce una ragazza...

Le dissi che una ragazza che fa la nottata alle veglie e invece che a casa rientra in albergo, è tenuta a sapersi guardare.

— Ah sí, — disse l’altra, indignata, — la colpa è delle madri. Perché non accompagnano le figlie?

— Che madri? — dissi. — Queste ragazze son sempre state con la madre, sono cresciute sul velluto, hanno visto il mondo dietro i vetri. Quando si tratta di cavarsela, non sanno e cascano male.

Adesso Mariuccia rideva, come a dirmi che lei sapeva cavarsela. La misi fuori e mi vestii. Per le strade era freddo e sereno, nella notte aveva piovuto sulla fanghiglia, e adesso il sole entrava sotto i portici. Sembrava una città nuova, Torino, una città finita allora,


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