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III.
La sera, quando rientrai, Morelli che mi aspettava in sala notò ch’ero uscita in soprabito, senza pelliccia. Lo feci salire e, mentre mi preparavo, gli chiesi se passava le giornate in albergo.
— Le notti le passo in casa, — mi disse.
— Davvero? — Parlavo nello specchio, voltandogli le spalle. Nelle sue terre ci passa mai?
— Ci passo in treno quando vado a Genova. Mia moglie ci vive. Per certi sacrifici non ci sono che le donne.
— Anche sposate? — borbottai.
Sentii che rideva.
— Non soltanto quelle, — sospirò. — Mi fa pena che lei Clelia vada in giro vestita in tuta, a sorvegliare gli imbianchini... Però quel sito in via Po non mi piace. Che credete di venderci?
— Torino è proprio una portieria, — dissi.
— Le città invecchiano come le donne...
— Per me non ha piú di trent’anni. Trentaquattro, via... Ma non l’ho scelta io via Po. L’hanno scelta da Roma.
— Si vede.
Ce ne andammo. Mi fece piacere che Morelli, che capiva tutto, non avesse capito perché quel giorno ero uscita in soprabito. Ci pensavo mentre salimmo nel tassi, e ci pensai dopo. Credo che in quella baraonda del veglione, quando a forza di cherry, di kummel e di presentazioni mi ebbe ridotta a sentirmi smaniosa e infelice, glielo dissi. Invece che in via Po, ero andata dal parrucchiere. Un piccolo parrucchiere, a due passi dall’albergo, e mentre mi asciugava i capelli, sentivo la voce acuta della manicurista dietro la tramezza a vetri raccontare come quel mattino era stata svegliata
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