Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 2, Einaudi, 1961.djvu/284

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grossa e ringhiosa del geometra s’abbassò subito quando dissi chi ero. Si lamentò che da Roma non gli avevano risposto a una lettera, tirò fuori anche il Genio Civile; tagliai corto e gli dissi di venire entro mezz’ora. Becuccio sorrise e mi tenne la porta.

Passai tutto il giorno nell’odore della calce. Rividi i progetti e le lettere che il geometra squadernò da una borsaccia di pelle. Con due casse Becuccio ci aveva fatto una saletta al primo piano. Presi nota dei lavori imminenti, preventivai le scadenze, parlai con l’uomo degli impianti. Si era perduto piú di un mese.

— Fin che dura carnevale... — diceva il geometra.

Tagliai che alla fine del mese volevamo il negozio.

Ripassammo le scadenze. Avevo prima interrogato Becuccio e mi ero fatta la mia idea. Anche con l’uomo degli impianti mi ero messa d’accordo. Il geometra dovette impegnarsi.

Tra una discussione e l’altra giravo le stanze vuote, dove adesso gli imbianchini lavoravano in piedi. Ne era sbucato un altro paio dal cortile. Scendevo e salivo una fredda scala senza ringhiera, ingombra di scope e di barattoli, e l’odore della calce — un odor vivo, di montagna — , mi dava alla testa, quasi che questo fosse un mio palazzo. Da una vuota finestra dell’ammezzato intravidi via Po, festosa e affollata in quell’ora. Era quasi il crepuscolo. Mi ricordai la finestretta del mio primo atelier, da cui si spiava la sera dando gli ultimi punti, con la smania che venisse quell’ora e uscir fuori felici. «Il mondo è grande», mi dissi forte, senza saper bene il perché. Becuccio aspettava discreto nell’ombra.

Avevo fame. Ero stanca del veglione di ieri e Morelli probabilmente mi aspettava all’albergo.

Senza dir nulla per l’indomani, me ne andai. Passai mezz’ora tra la folla. Non camminai verso piazza Vittorio, fragorosa di orchestre e di giostre. Il carnevale mi è sempre piaciuto fiutarlo dalle viuzze e nella penombra. Mi ricordai molte feste romane, molte cose sepolte, molte sciocchezze. Di tutto questo non restava che Maurizio, quel matto Maurizio, un equilibrio e quella pace. Restava ch’ero cosí a zonzo, padrona di me, padrona di girare Torino e fermarmi e disporre per l’indomani.

M’accorsi, camminando, che ripensavo a quella sera diciassette anni prima, quando avevo lasciato Torino, quando avevo deciso che una persona può amarne un’altra piú di sé, eppure io stessa sapevo bene che volevo soltanto uscir fuori, metter piede nel mondo,


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