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IV.
Quella sera rientrai sotto un’ombra di luna e chiacchierai dopocena in frutteto, come piaceva alle mie vecchie. Dalla villa vicina era venuta Egle, una studentessa quindicenne che l’Elvira proteggeva. Dicevano che le scuole dovevano chiudersi, ch’era un delitto trattenere ancora i ragazzi in città.
— E i professori. E i portinai, — aggiunsi io. — E i tranvieri. E le cassiere dei bar.
I miei scherzi mettevano l’Elvira a disagio. Gli occhietti d’Egle mi frugarono.
— Quel che dice lo pensa, — mi chiese sospettosa, — o prende in giro anche stasera?
— Tocca ai soldati far la guerra, — disse la mamma di Elvira. — Non si sono mai viste delle cose cosí.
— Tocca a tutti, — dissi. — A suo tempo gridavano tutti.
La luna cadeva dietro le piante. Tra poche notti era piena e avrebbe inondato cielo e terra, scoperchiato Torino, portato altre bombe.
— Hanno detto, — disse Egle a un tratto, — che la guerra finisce quest’anno.
— Finisce? — le dissi. — Non è ancora cominciata.
Mi fermai. Tesi l’orecchio e vidi gli occhi trasalire, l’Elvira raccogliersi, tutte tacere. — Qualcuno canta, — Egle proruppe, sollevata.
— Meno male.
— Che matti.
Lasciai Egle al cancello. Quando fui solo in mezzo alle piante, non trovai subito la strada. Belbo seguiva una sua pista e sbuffava
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