Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 2, Einaudi, 1961.djvu/328

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XVI.

Arrivammo che delle signore uscivano; mi guardarono. Vent’anni fa in quel quartiere di Torino non ci passava la mia strada. Trovammo Mariella e la madre che avevano preso il tè allora; la nonna — peccato — era assopita, si preparava per la sera, perché un certo violinista rumeno sarebbe venuto a suonare e lei voleva assistere. Aspettavano pochi amici, volevamo prender parte anche noi?

Mariella mi faceva gli occhiacci e mentre passavamo nel salotto delle porcellane mi sgridò a bassa voce per non averle detto in tempo della gita a Saint-Vincent. — Venga stasera, — mi disse, — ci sarà Rosetta, tutti i nostri.

— Non vedo piò nessuno. Che fate?

— Non si sa, — disse lei misteriosa. — Provare per credere.

Feci in tempo a tirar la giacca a Morelli perché non raccontasse a quelle pettegole la storia dei miei salotti. La madre accese le luci nella vetrina delle porcellane, e di ogni pezzo ci raccontò qualcosa. Parlò del bisnonno, di nozze, di zie, della rivoluzione francese. Di certe miniature appese al muro — donne rosee, in parrucca — Morelli sapeva i nomi e ce li disse. Raccontò lui la storia di una certa Giuditta — anche lei di famiglia — che s’era stesa sotto un albero, nei giardini reali, e il re d’allora tra i rami le tirava in bocca le ciliege. Io guardavo e cercavo di capire la materia e il segreto — come si fa per un modello — ma era piú che difficile inutile. Quell’eleganza delle statue e delle testine dipinte era fatta di niente, e senza i nomi i discorsi le storielle di famiglia non bastava a far ambiente. Dovevo proprio accontentarmi di Febo.

Cosí quella sera tornammo per sentire il violinista. Rividi la


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