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XVIII.
Dovetti crederle. Le chiesi perché non pensava piuttosto a sposarsi. Alzò le spalle. Disse che conosceva gli uomini. — Forse non tutti, — osservai.
— Non è necessario, — disse.
— Non mi dirà come Momina che ha paura di fare bambini.
— I bambini mi piacciono, — disse. — Ma dovrebbero restar sempre bambini. Se penso che poi crescono e saranno persone come noi, mi fa rabbia... Non crede?
— Non ne ho, — dissi.
Ci lasciammo, con la promessa di rivederci, ma ero convinta che non sarebbe tornata. Rosetta era venuta a cercarmi per ingenuità o per dispetto, ma ormai doveva essersi accorta che con me era impossibile ristabilire le distanze. Si ricascava sempre nello stesso discorso.
Andai a Milano a vedere certi mobili di vetro, con Febo che trovò un’automobile e mi ci portò. Tutto andò bene, soltanto al ritorno sull’autostrada ci fermammo per accendere una sigaretta e Febo, con la faccia di quella notte a Ivrea, mi cacciò addosso le mani. Gli feci un livido in un occhio che credevo di averlo accecato, ma riprendendo la corsa stette buono e gli spiegai che il mondo è grande e non si deve fare l’amore coi compagni di lavoro. Lui guardava la strada, mogio. Gli chiesi perché non riprovava con Momina, o addirittura non si cercava una moglie tra le amiche di Momina. Gente ricca e istruita, che sapeva dipingere e fare il teatro. Allora mi guardò con un occhio divertito. Fermò la macchina. «Ci risiamo», pensai. — Clelia Clelia, — mi disse ma senza toccarmi, — vuole essere mia moglie stasera?
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