Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 2, Einaudi, 1961.djvu/405

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Il giorno che tornai al casotto di Gaminella, conoscevo già il vecchio Valino. L’aveva fermato Nuto in piazza in mia presenza e gli aveva chiesto se mi conosceva. Un uomo secco e nero, con gli occhi da talpa, che mi guardò circospetto, e quando Nuto gli disse ridendo ch’ero uno che gli aveva mangiato del pane e bevuto del vino, restò lí senza decidersi, torbido. Allora gli chiesi se era lui che aveva tagliato i noccioli e se sopra la stalla c’era sempre quella spalliera di uva passera. Gli dicemmo chi ero e di dove venivo; Valino non cambiò quella faccia scura, disse soltanto che la terra della riva era magra e tutti gli anni la pioggia ne portava via un pezzo. Prima di andarsene mi guardò, guardò Nuto e gli disse: — Vieni una volta su di là. Voglio farti vedere quella tina che perde.

Poi Nuto mi aveva detto: — Tu in Gaminella non mangiavi tutti i giorni... — Non scherzava piú, adesso. — Eppure non vi toccava spartire. Adesso il casotto l’ha comprato la madama della Villa e viene a spartire i raccolti con la bilancia... Una che ha già due cascine e il negozio. Poi dicono i villani ci rubano, i villani sono gente perversa...

Da solo ero tornato su quella strada e pensavo alla vita che poteva aver fatto il Valino in tanti anni — sessanta? forse nemmeno — che lavorava da mezzadro. Da quante case era uscito, da quante terre, dopo averci dormito, mangiato, zappato col sole e col freddo, caricando i mobili su un carretto non suo, per delle strade dove non sarebbe ripassato. Sapevo ch’era vedovo, gli era morta la moglie nella cascina prima di questa e dei figli i piú vecchi erano morti in guerra — non gli restava che un ragazzo e delle donne. Che altro faceva in questo mondo?

Dalla valle del Belbo non era mai uscito. Senza volerlo mi fermai sul sentiero pensando che, se vent’anni prima non fossi scappato, quello era pure il mio destino. Eppure io per il mondo, lui per quelle colline, avevamo girato girato, senza mai poter dire: «Questi sono i miei beni. Su questa trave invecchierò. Morirò in questa stanza».

Arrivai sotto il fico, davanti all’aia, e rividi il sentiero tra i due rialti erbosi. Adesso ci avevano messo delle pietre per scalini. Il salto dal prato alla strada era come una volta — erba morta sotto il mucchio delle fascine, un cesto rotto, delle mele marce e schiacciate. Sentii il cane di sopra scorrere lungo il filo di ferro.

Quando sporsi la testa dagli scalini, il cane impazzí. Si buttò


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