Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 2, Einaudi, 1961.djvu/419

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IX.

Adesso bisognava scendere nel cortile della casa e dargli quel piacere. Ma sapevo che avrebbe dovuto sturarmi una bottiglia e poi la bottiglia pagarla ai mezzadri. Gli dissi ch’era tardi, ch’ero atteso in paese, che a quell’ora non prendevo mai niente. Lo lasciai nel suo bosco, sotto i pini.

Ripensai a questa storia le volte che passavo per la strada di Gaminella, al canneto del ponte. Qui ci avevo giocato anch’io con Angiolina e Giulia, e fatto l’erba per i conigli. Cinto si trovava sovente al ponte, perché gli avevo regalato degli ami e del filo di lenza e gli raccontavo come si pesca in alto mare e si tira ai gabbiani. Di qui non si vedevano né San Grato né il paese. Ma sulle grandi schiene di Gaminella e del Salto, sulle colline piú lontane oltre Canelli, c’erano dei ciuffi scuri di piante, dei canneti, delle macchie — sempre gli stessi — che somigliavano a quello del Cavaliere. Da ragazzo fin lassú non c’ero mai potuto salire; da giovane lavoravo e mi accontentavo delle fiere e dei balli. Adesso, senza decidermi, rimuginavo che doveva esserci qualcosa lassú, sui pianori, dietro le canne e le ultime cascine sperdute. Che cosa poteva esserci? Lassú era incolto e bruciato dal sole.

— Li hanno fatti quest’anno i falò?! — chiesi a Cinto. — Noi li facevamo sempre. La notte di San Giovanni tutta la collina era accesa.

— Poca roba, — disse lui. — Lo fanno grosso alla Stazione, ma di qui non si vede. Il Piola dice che una volta ci bruciavano delle fascine.

Il Piola era il suo Nuto, un ragazzotto lungo e svelto. Avevo visto Cinto corrergli dietro nel Belbo, zoppicando.


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