Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 2, Einaudi, 1961.djvu/46

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— La fate soltanto voialtri, siete ingenui, — interruppe la sorella.

L’Elvira ascoltava, ammirata. — All’età di voialtri, — gli dissi, per noi la vita era un salotto, un’anticamera. Ci pareva di fare gran che a uscir di sera, a saltare sul treno in paese per tornare in città. Si aspettava qualcosa che non veniva mai.

Mi capí al volo, quel ragazzo. Disse: — Adesso il qualcosa è venuto.

Poi l’Elvira ci fece il tè. La vecchia chiese guardinga se, adesso che gli inglesi eran sbarcati, c’era pericolo che la guerra risalisse l’Italia.

— Per noi, — disse il giovane, — meglio combattere in Italia che sul mare o nel deserto. Cosí almeno sappiamo che cadremo in casa nostra.

— Nei vostri quartieri, — gli disse l’Elvira, — avete almeno pulizia e cibi caldi? Una tazza di tè come questo?

— Non capisco perché non ci vogliano in guerra, — disse l’Egle. — Potremmo fare tante cose nelle basi e in prima linea. Divertirvi, aiutarvi. Non soltanto come infermiere.

Il fratello aprí la bocca e disse: — Certo.

Poi venne sera e, non so come, quella sera stetti a guardare il cielo nero. Ripensavo alla notte e al mattino, al passato, a tante cose. Alla mia strana immunità in mezzo alle cose. Ai miei sciocchi rancori. Di tanto in tanto nella notte mi giungevano canti, clamori lontani. Fiutavo l’odore dei boschi. Pensavo a Dino, all’aviatore, alla guerra. Pensavo che tanto ero vecchio e che avrei sempre continuato quella vita.


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