Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 2, Einaudi, 1961.djvu/460

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lavo in camioncino, e stette a sentirmi senza piú guardare quei quattro che giocavano a tarocchi.

Poi mi disse: — Quest’oggi c’è la partita, — e allargava gli occhi.

Stavo per dirgli: — E tu non ci vai? — ma sulla porta dell’Angelo comparve il Valino, nero. Lui lo sentí, se ne accorse prima ancora di vederlo, posò il bicchiere, e raggiunse suo padre. Sparirono insieme nel sole.

Cos’avrei dato per vedere ancora il mondo con gli occhi di Cinto, ricominciare in Gaminella come lui, con quello stesso padre, magari con quella gamba — adesso che sapevo tante cose e sapevo difendermi. Non era mica compassione che provavo per lui, certi momenti lo invidiavo. Mi pareva di sapere anche i sogni che faceva la notte e le cose che gli passavano in mente mentre arrancava per la piazza. Non avevo camminato cosí, non ero zoppo io, ma quante volte avevo visto passare le carrette rumorose con su le sediate di donne e ragazzi, che andavano in festa, alla fiera, alle giostre di Castiglione, di Cossano, di Campetto, dappertutto, e io restavo con Giulia e Angiolina sotto i noccioli, sotto il fico, sul muretto del ponte, quelle lunghe sere d’estate, a guardare il cielo e le vigne sempre uguali. E poi la notte, tutta la notte, per la strada si sentivano tornare cantando, ridendo, chiamandosi attraverso il Belbo. Era in quelle sere che una luce, un falò, visti sulle colline lontane, mi facevano gridare e rotolarmi in terra perch’ero povero, perch’ero ragazzo, perch’ero niente. Quasi godevo se veniva un temporale, il finimondo, di quelli d’estate, e gli guastava la festa. Adesso a pensarci rimpiangevo quei tempi, avrei voluto ritrovarmici.

E avrei voluto ritrovarmi nel cortile della Mora, quel pomeriggio d’agosto che tutti erano andati in festa a Canelli, anche Cirino, anche i vicini, e a me, che avevo soltanto degli zoccoli, avevano detto: — Non vuoi mica andarci scalzo. Resta a fare la guardia — . Era il prim’anno della Mora e non osavo rivoltarmi. Ma da un pezzo si aspettava quella festa: Canelli era sempre stata famosa, dovevano far l’albero della cuccagna e la corsa nei sacchi; poi la partita al pallone.

Erano andati anche i padroni e le figlie, e la bambina con l’Emilia, sulla carrozza grande; la casa era chiusa. Ero solo, col cane e coi manzi. Stetti un pezzo dietro la griglia del giardino, a guardare chi passava sulla strada. Tutti andavano a Canelli. Invidiai anche i mendicanti e gli storpi. Poi mi misi a tirar sassi contro


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