Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 2, Einaudi, 1961.djvu/467

Da Wikisource.

a Genova c’era stato anche Nuto, ci venivano tutti — di Genova ero già stufo, volevo andare piú lontano — ma, se le avessi detto questo, lei si sarebbe arrabbiata, mi avrebbe prese le mani e cominciato a maledire, ch’ero anch’io come gli altri. «Eppure gli altri, — le avevo spiegato, — si fermano a Genova volentieri, ci vengono apposta. Io un mestiere ce l’ho, ma a Genova nessuno lo vuole. Bisogna che vada in un posto che il mio mestiere mi renda. Ma che sia lontano, che nessuno del mio paese ci sia mai stato».

Teresa sapeva ch’ero figlio bastardo e mi chiedeva sempre perché non facevo ricerche, se non ero curioso di conoscere almeno mia madre. — Magari, — lei mi diceva, — è il tuo sangue ch’è cosí. Sei figlio di zingari, hai i peli ricci...

(L’Emilia, che mi aveva messo il nome di Anguilla, diceva sempre che dovevo esser figlio di un saltimbanco e di una capra dell’alta Langa. Io dicevo ridendo ch’ero figlio di un prete. E Nuto, già allora, mi aveva chiesto: — Perché dici questo? — Perché è un pelandrone, — aveva detto l’Emilia. Allora Nuto si era messo a gridare che nessuno nasce pelandrone né cattivo né delinquente; la gente nasce tutta uguale, e sono solamente gli altri che trattandoti male ti guastano il sangue. — Prendi Ganola, — io ribattevo, — è un insensato, nato allocco. — Insensato non vuol dire cattivo, — diceva Nuto, — sono gli ignoranti che gridandogli dietro lo fanno arrabbiare).

Io a queste cose ci pensavo soltanto quando avevo in braccio una donna. Qualche anno dopo — stavo già in America — mi accorsi che per me quella gente era tutta bastarda. A Fresno dove vivevo, portai a letto molte donne, con una fui quasi sposato, e mai che capissi dove avessero padre e madre e la loro terra. Vivevano sole, chi nelle fabbriche delle conserve, chi in un ufficio — Rosanne era una maestra ch’era venuta da chi sa dove, da uno stato del grano, con una lettera per un giornale del cinema, e non volle mai raccontarmi che vita avesse fatto sulla costa. Diceva soltanto ch’era stata dura — a hell of a time. Glien’era rimasta una voce un po’ rauca, di testa. È vero che c’erano famiglie su famiglie, e specie sulla collina, nelle case nuove, davanti alle tenute e alle fabbriche della frutta, le sere di estate si sentiva baccano e odor di vigna e di fichi nell’aria, e bande di ragazzi e di bambine correvano nelle viuzze e sotto i viali, ma quella gente erano armeni, messicani, italiani, sembravano sempre arrivati allora, lavoravano la terra allo


463