Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
nutrito di latte e di sugo d’arancia, e da me, dal mio sangue spesso. Venivamo tutti e due da chi sa dove, e l’unico modo per sapere chi fossimo, che cosa avessimo veramente nel sangue, era questo. Sarebbe bella, pensavo, se mio figlio somigliasse a mio padre, a mio nonno, e cosí mi vedessi davanti finalmente chi sono. Rosanne me l’avrebbe anche fatto un figlio — se accettavo di andare sulla costa. Ma io mi tenni, non volli — con quella mamma e con me sarebbe stato un altro bastardo — un ragazzotto americano. Già allora sapevo che sarei ritornato.
Rosanne, fin che l’ebbi con me, non concluse niente. Certe domeniche della bella stagione andavamo alla costa in automobile e prendevamo il bagno; lei passeggiava sulla spiaggia con dei sandali e delle sciarpe a colori, sorbiva la bibita in calzoncini nelle piscine, si distendeva sullo sdraio come se fosse nel mio letto. Io ridevo, non so bene di chi. Eppure mi piaceva quella donna, mi piaceva come il sapore dell’aria certe mattine, come toccare la frutta fresca sui banchi degli italiani nelle strade.
Poi una sera mi disse che tornava dai suoi. Restai lí, perché mai l’avrei creduta capace di tanto. Stavo per chiederle quanto sarebbe stata via, ma lei guardandosi le ginocchia — era seduta accanto a me nella macchina — mi disse che non dovevo dir niente, ch’era tutto deciso, che andava per sempre dai suoi. Le chiesi quando partiva. — Anche domani. Any time.
Riportandola alla pensione le dissi che potevamo aggiustarla, sposarci. Mi lasciò parlare con un mezzo sorriso, guardandosi le ginocchia, corrugando la fronte.
— Ci ho pensato, — disse, con quella voce rauca. — Non serve. Ho perduto. I’ve lost my battle.
Invece non andò a casa, tornò ancora alla costa. Ma non uscí mai sui giornali a colori. Mi scrisse mesi dopo una cartolina da Santa Monica chiedendomi dei soldi. Glieli mandai e non mi rispose. Non ne seppi piú niente.
465 |