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XXX.
Ricordo una domenica d’estate — dei tempi che Silvia era viva e Irene giovane. Dovevo avere diciassette diciotto anni e cominciavo a girare i paesi. Era la festa del Buon Consiglio, di primo settembre. Con tutto il loro tè e le visite e gli amici, Silvia e Irene non potevano andarci — per non so che questioni di vestiti e di dispetti non avevano voluto la compagnia solita, e adesso stavano distese sugli sdrai a guardare il cielo sopra la colombaia. Io quel mattino m’ero lavato bene il collo, cambiata la camicia e le scarpe, e tornavo dal paese per mangiare un boccone e poi saltare in bicicletta. Nuto era già al Buon Consiglio dal giorno prima perché suonava sul ballo.
Dal terrazzo Silvia mi chiese dove andavo. Aveva l’aria di voler chiacchierare. Di tanto in tanto lei mi parlava cosí, con un sorriso da bella ragazza, e in quei momenti mi pareva di non essere piú un servitore. Ma quel giorno avevo fretta e stavo sulle spine. Perché non prendevo il biroccio? mi disse Silvia. Arrivavo prima. Poi gridò a Irene: — Non vieni al Buon Consiglio anche tu? Anguilla ci porta e guarda il cavallo.
Mi piacque poco ma dovetti starci. Scesero col cestino della merenda, coi parasoli, con la coperta. Silvia era vestita di un abito a fiori e Irene di bianco. Salirono con le loro scarpette dal tacco alto e aprirono i parasoli.
Mi ero lavato bene il collo e la schiena, e Silvia mi stava vicino sotto il parasole e sapeva di fiori. Le vedevo l’orecchio piccolo e rosa, forato per l’orecchino, la nuca bianca, e, dietro, la testa bionda d’Irene. Parlavano tra loro di quei giovanotti che venivano a trovarle, li criticavano e ridevano, e qualche volta, guardandomi, mi dicevano che non ascoltassi; poi tra loro indovinavano chi sarebbe
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