Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 2, Einaudi, 1961.djvu/53

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gente che attendeva, rientrava, parlava. In quei paraggi, strano a dirsi, non c’erano case diroccate. Chiesi a Fonso se stasera tornava lassú.

— C’è da fare a Torino, — mi disse, — c’è da tenere gli occhi aperti.

Il gigante approvò col capo.

— E le donne dove sono? — dissi. — Cate è rimasta all’ospedale?

— Rimanete con noi stasera, — disse Fonso. — Andiamo tutti alla riunione.

— Che riunione?

Fonso ghignò, come un ragazzo. — Riunione in piazza, o clandestina. Secondo. Con questo governo non si capisce piú niente. Almeno, prima, la galera era sicura.

Mi feci dire dove potevo ritrovarli. Strinsi la manona dell’altro. Me ne andai sotto il sole. Mangiai in un caffè del centro, dove si discorreva come niente fosse successo. Una cosa era certa — l’avevano detto anche le radio nemiche — per qualche giorno niente bombe dal cielo. Passai dalla scuola ma non c’era nessuno. Allora andai solo, per strade e caffè, sfogliai dei libri da un libraio, mi soffermai davanti a vecchie case che contenevano ricordi mai piú rinvangati. Tutto pareva rinnovato, fresco, bello, come il cielo dopo un temporale. Sapevo bene che non sarebbe durata, e passo passo mi diressi all’ospedale, dove lavorava Cate.


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