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la ginestra 107

siero e di dolore dalla quale chi abbassa lo sguardo, non vede che simili.

Ci siamo noi ancora saliti?

Ad ogni modo, io sento che questa è parola che l’umanità deve tesaurizzare, perchè è fatta per sopire l’odio. Ve n’è un’altra, di parole, che ha questo medesimo fine, sebbene venga da tutt’altre premesse. La parola della disperaziane e quella della speranza somigliano. Si può solo disputare, quale sia per avere maggior efficacia; ma somigliano.

Io ricordo che per me (non sembri irriverente qui un mio ricordo di fanciullezza) prima che la ginestra fosse il fiore del deserto, il fiore della negazione, era quello che in più gran copia mietevamo, noi fanciulli, per i greppi d’Urbino, nelle feste religiose dell’estate. Quei giorni portavamo nelle nostre passeggiate pomeridiane, dopo la benedizione celebrata nella chiesa del collegio con tanti ceri e fiori e suoni e canti, un non so che di dolce e di solenne, di tenero e di nuovo, come un profumo d’incenso, un’eco di inni, nel nostro cuore pio. Spogliavamo le ginestre, nel nostro cammino, a gara; poi tutti insieme nella strada maestra dipingevamo con gli odorosi petali d’oro una ghirlanda, con in mezzo le sigle così ingenue e grandi: I. M. I. Chi doveva porre il piede su quel tappeto di gloria, fatto da fanciulli, tessuto di fior di ginestra? Tramontava il sole dietro le Cesane e la schiera ritornava al collegio per le vie già ombrate. E il tappeto? Rimaneva là aureo in mezzo alla strada, mentre sui monti ardeva il crepuscolo.

Quando poi lessi là in quella erma terra marchigiana il poema più bello del poeta marchigiano, quando lessi: