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un poeta di lingua morta 165

III.


Egli mi avrebbe risposto: — Ospite, io ti parlerò con antica vecchia semplicità. Tu non mostri dubbiezza sull’arte mia, perchè il linguaggio, che ne è lo strumento, non sia inteso dall’universale degli uomini. Tu sai bene che non potrei usare un linguaggio che fosse inteso da tutti; perchè non esiste... ancora. E non dico solo che non c’è linguaggio comune a tutti i popoli, ma nemmeno ce n’è che sia intelligibile a tutti, anzi alla maggior parte degli uomini, di un singolo popolo. Nè c’è speranza che si formi da sè, questo linguaggio o universale o nazionale, nè c’è timore che si fabbrichi dai meccanici nostri: la natura va dal semplice al composto, dall’omogeneo all’eterogeneo, e non viceversa; e le lingue e i dialetti moltiplicheranno sempre d’anno in anno e di secolo in secolo. Per questa parte, ospite, tant’è che io usi il latino e il greco, quanto qualunque lingua parlata; anzi, se si computa bene, devo credere di esser per avere più intenditori, in tutto il mondo, del mio latino, che nella sola Italia, del mio italiano. Non è qui il tuo dubbio. In fin dei conti, tu non parli della lingua, cioè della veste sensibile, ma dell’idea, cioè dell’anima intelligibile. Tu osservi che anche nella tua lingua io preferisco la parola antiquata e la costruzione fuori d’uso. Tu metti in relazione il gusto cinquecentistico delle mie Veglie Pompeiane e d’ogni mia cosa volgare col mio culto per le lingue latina e greca nello Xiphia, nelle elegie, negli epigrammi, nelle iscrizioni, nelle epistole, nelle orazioni: la parte massima dell’opera mia. E