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276 | pensieri e discorsi |
dell’impero, e dovrebbero essere detti della giustizia e libertà: l’ideale specialmente di Virgilio. Ma tutti e due trascorsero la loro vita guardando in alto. Pochi anni, un po’ più di tre lustri, avanti alla nascita del Cristo, Orazio cantava la palingenesia rivolto al sole. Egli chiedeva, anzi si aspettava, la fine, con la clemenza e con trattati, di ogni guerra, l’abbondanza della terra, ben lavorata, e le virtù sociali degli uomini, ben educati. L’inno è, in certo modo, il compendio armonioso dell’opera di Virgilio che era morto due anni prima. Egli si era recato nel 735 in Grecia per finire l’Eneide, chi sa? forse destinandone la pubblicazione a due anni dopo, alla solennità dei Ludi secolari. A ogni modo, in quella solennità si udì, per bocca di Orazio, la virgiliana parola del perdono e della pace. Chè Virgilio, lasciate anche le campagne come già le selve, aveva cantato sì le guerre, ma per annunziarne la fine. Il suo pensiero è sempre quello: quello d’un rinnovamento, d’una risurrezione, d’una redenzione. L’aveva auspicata per l’anno settecentoquattordici. Era stato deluso, e se la riprometteva ancora: ancora aspettava nella terra, regnata già da Saturno, gli aurea saecula.
I quali non vennero allora, non sono venuti ancora. Venne però il Cristianesimo. Cominciò quel movimento dell’anime, per il quale gli uomini si dovevano riconoscere per fratelli; per il quale la vita non doveva apparir bella e buona, se non smezzata col prossimo. Nacque il Cristo. E io dico che nessuno può dirsi il precursore di lui a più buon diritto di questo poeta italico che passò la vita a profetare la palingenesi. Fu egli, anche se non è vero quel che a me pare verissimo, che attingesse da fonte orien-