Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
322 | pensieri e discorsi |
e fa cadere cento paesi con un urto solo. E gli eroi frugano, tra il tremor della terra, le macerie pericolanti; disseppelliscono i morti, curano i feriti, erigono tende e baracche, fanno da ingegneri, da medici, da becchini, da balie. Mi par di sentire l’immenso anelito degli affranti battaglioni che combattono in ordine sparso nell’estrema Calabria, al sole ardente, ahimè! sotto le acquate dirotte. O nostri buoni e forti battaglioni, chiamati a soccorrere tutte le sventure, incendi, inondazioni, pestilenze, tremuoti, e destinati, a quando a quando, a cadere in massa, distrutti in un attimo, come a Dogali e ad Abba-Garima!
Ebbene: se dall’unità, che oggi, trentacinque anni sono, si affermò in Roma, non avessimo avuto altro frutto che quest’esercito, che salva in pace e muore in guerra: e non avessimo avuto, intorno a quello, se non questa cospirazione d’amore in pro’ degli infelici fratelli nostri; non sarebbe già assai?
Ma verranno gli altri frutti dell’ulivo di pace. Di pace? Sì: ripeto. Col tempo si dirà che da quel giorno anche per quelli che sembrarono i vinti, cominciava un’Èra nuova, che da allora il cristianesimo romano si apparecchiava, forse, a diventare veramente universale. Chi sa? Cessato non solo il fragore della breve battaglia mattutina, ma anche il clamore della folla delirante nel giorno e nella notte, un Uomo, se pur così è lecito chiamarlo, un Uomo scalzo, vestito di lunga veste, con le traccie del sangue ai piedi alle mani al petto, entrava al lume delle stelle, entrava nel silenzio della città eterna, anche lui entrava dalla breccia di Porta Pia... Reggeva la croce, passava inavvertito tra le sentinelle e i bivacchi.