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62 MARIO RAPISARDI

quità nel giudizio delle cose e degli uomini, ch’è virtù di pochissimi in ogni tempo e quasi sovrumana virtù in tempi di passioni e in paesi corrotti. I suoi nemici furono quelli stessi della nazione: gli stranieri, i preti, i monarchici. Ai primi egli fece sentire più volte la punta della sua spada, agli altri la punta della sua logica, diritta, rigida, acuta come il suo acciaro, come l’anima sua. Ma nella polemica non trascorse mai, nemmeno coi suoi calunniatori, nemmeno coi preti. La serenità inalterabile dell’animo suo nasceva da coscienza piena del proprio dovere, da fede incrollabile nel proprio ideale, da quella tal filosofica compassione delle nuove miserie, che la natura dà in dote agli animi forti e coscienti.

Imitatelo, o giovani del mio paese, imitatelo nella fede operosa del bene, ed affrettate sulla sua tomba l’aurora desiderata dei nuovi destini. Ma non vi lasciate illudere da trafficati connubi di fazioni e di sètte, da trasformazioni improvvise di camaleonti politici: combattete anzi costoro prima di tutti gli altri, chè essi sono i peggiori nemici d’Italia; sono corrotti e corrompono. Nè la tolleranza, virtù di popoli liberi ed indipendenti, sia invocata da una ibrida scienza a tutelare i diritti (ed hanno essi diritti?) degli sciacalli del Vaticano, perpetuamente congiurati ai nostri danni e resi indolenti e quasi formidabili dalla stolta indifferenza e da favori codardi. Nè liberi noi siamo ancora nè indifferenti; e l’eredità che voi ci lasciate, o morti gloriosi, o Giuseppe Garibaldi,