Pagina:Petruccelli - La rivoluzione di Napoli nel 1848, Genova, Moretti, 1850.djvu/163

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solo del momento, ma duraturo e proiettato sull’avvenire: non colpiva solamente le affezioni attuali, uccideva le speranze. Il governo raddoppiò di arroganza. E se qualche giorno prima si sarebbe contentato semplicemente di sbarazzarsi di un nemico, di un accusatore ardito ed indefesso fino alla petulanza, dopo la nuova della vittoria dei nemici d’Italia, quel ministero che aveva protestato essere italiano, volle vituperare la camera, e scioglierla in mezzo al grido d’indignazione che un popolo fremente metteva fuori. Non era più una misura di governo, ma una vendetta; non era più una necessità politica, ma un’onta.

41. Per accrescere le file dell’armata, il re aveva vuotato le prigioni e le galere. Aveva fatto grazia ai ladri, ai falsari, agli assassini, per fino ai parricidi, a tutti coloro insomma che avevano violati i diritti sociali ed i vincoli di natura, e ne aveva formato un battaglione, per cui nulla vi potesse più essere di sacro e di venerato, il battaglione della morte. Per crearsi dei partigiani la polizia aveva ruminato per lupanari e taverne, per bische e cantine, e vi aveva reclutato quanto la città produceva di più immondo e di più miserabile. Poscia aveva scelto a capo il figlio di un bettoliere, aveva lor pagati qualche soldo, ed aveva imposto di percorrere la città gridando: abbasso la costituzione! abbasso la camera! viva il re! Credeva gittare così il fango sul viso ai deputati, e farli trascinare nel loto da quelli affamati illusi. Il giorno 5 settembre infatti, mentre il ministero leggeva alla camera il decreto di proroga, quella ciurmaglia, preceduta da uno straccio bianco alla cima di una pertica, partì dalla strada di santa Lucia e s’imboccò in quella