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tanto più che la donna, per canzonatura, si mise anch’essa a balbettare.
— Un piano più su? sclamò l’uomo; datemi, dunque, una scala per salire in cielo: a meno che non intendiate dirmi che la è morta.
La camera della donna che spazzava era sotto il tetto, o, a meglio dire, sopra quella terrazza che serve di tetto alle case di Napoli e che chiamano astrico.
— E che cosa vuoi dunque farne, quell’uomo, della tua Se-se-ra-rafina?
— È il curato di san Matteo, don Gennaro Tibia, che mi manda.
— Non conosco codesto messere; giù per la tua via, povero di san Gennaro.
— Signora duchessa, sclamò l’uomo adirato, io non sono un povero di san Gennaro; io vivo delle mie entrate.
— L’avevo immaginato, disse la donna d’un tono ironico. E così?
— Il curato m’ha detto che questa Serafina Minutolo, una buona donna di questa parrocchia, faceva il mestiere di cucitrice. Si sarebbe forse ingannato sulla buona donna?
— Si è ingannato, buon uomo; non si cuce più qui.
— No? chiese l’uomo dando un’occhiata scrutatrice per la stanza. Eh! la vecchia, avresti guadagnato un terno al lotto?
— No, ma ne guadagnerò uno giuocando i tuoi numeri, mariuolo, rispose quella megera: l’occhio guercio che ci vede chiaro, 7; i mustacchi di crine da cavallo, 71; la lingua alla salsa piccante, 43. Eh! il terno è fatto: 7, 71, 43.