Pagina:Petruccelli Della Gattina - Il sorbetto della regina, Milano, Treves, 1890.djvu/21

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Vi si respirava qualche cosa di più pungente che miseria; vi si sentiva la povertà che soffre, che si rassegna con indifferenza o disdegno. La polvere copriva le mobiglie, e le ragnatele si stendevano sulle pareti a guisa di tappezzerie.

Il fumo del camino, che preferiva spandersi nella stanza anzichè per la cappa e andar a far visita alle nuvole, aveva incrostata una vernice nera e lucente sopra i travi ed i muri che parevano d’ebano. L’era lugubre, una tomba, piuttosto che la dimora di una creatura vivente.

La casa portava il lutto dell’uomo.

Si entrava a terreno in una vasta sala, che serviva nello stesso tempo di salotto, di scuola, di camera da pranzo, di gabinetto da lavoro, d’anticamera, di cucina, di tutto, eccetto che di stanza da letto. Nella sala era stata praticata una specie di alcova con una finestrina nel fondo che dava in una viuzza molto sucida. Il sergente dormiva in quel buco.

Si vedevano nella sala alcune seggiole di legno, un gran banco colla spalliera sì alta, che serviva di paravento dalla parte del camino esposta alla porta d’entrata, ed una grande tavola. Poi un armadio, con un battente otto, appoggiato al muro, alcuni libri, delle bottiglie e dei cocci da cucina. Ma tutte queste cianfrusaglie erano vecchie, sudicie, sformate, ammaccate. Domandavano la giubilazione, o almeno la mano d’una donna, quella mano che dà vita, luce, gioventù, sorriso a tutto.

La donna è l’aurora: illumina.