Pagina:Petruccelli Della Gattina - Il sorbetto della regina, Milano, Treves, 1890.djvu/244

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— Non sono ancora entrato nell’altro appartamento, rispose freddamente Bruto.

— E cos’hai alla guancia, fasciata così.

— Mal di denti. È dessa ancor lì?

— Lo credo bene. Da un’ora.

Bruto, senza aggiungere una parola, sollevò la portiera di velluto ed entrò dalla principessa. Scorgendolo, ella gli corse incontro e gli saltò al collo. Poi indietreggiò; vedendo la guancia di Bruto avviluppata da pannilini.

— Cosa è codesto? chiese ella con ansietà.

— Una ferita.

— Una ferita? Come!

— Una palla di pistola ha tagliato il mio orecchio, e sfiorata la mia guancia, un’altra ha solcato la pelle del mio cranio.

— Dio del cielo! un duello?

— No, signora; un assassinio mancato.

— Da chi, dunque?

— Dal marchese di Diano!

La principessa ricadde sul divano, impallidì e si tacque. Bruto si assise accanto a lei, ad una certa distanza, la testa bassa e le disse:

— Signora, vi devo una rivelazione. Per viltà, per rispetto, per attaccamento di medico al proprio ammalato, l’ho ritardata lungamente. Gli avvenimenti mi vi obbligano oggi. Mi vi sobbarco.

— Cosa voi dite?

— Signora, voi andrete senza fallo a disprezzarmi. Avete ragione, io non mi scuso. Ma voi non mi sprezzerete mai tanto, quanto io mi sprezzo, dal giorno che ho posto il piede in questo ridotto.