Pagina:Petruccelli Della Gattina - Il sorbetto della regina, Milano, Treves, 1890.djvu/274

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Il conte aveva cangiato di aspetto. Dacchè aveva commesso il suo ultimo atto d’uomo, era ridivenuto gentiluomo.

— Voi sapete adesso ch’io mi sia, diss’egli. Non ho che una parola ad aggiungere sull’atto di giustizia da me consumato. Io era ricco, aveva una giovane moglie ed una madre vecchia, aveva l’onore, il sorriso, la gioventù, l’avvenenza, l’avvenire il più carezzato dal destino; quel Caino mi prese tutto. Mi tradì come Trentacapelli tradì Murat, mi vendè come Giuda. Mia madre, mia moglie sono morte sotto un tetto straniero, quasi di miseria. Io le aveva accompagnate nella provincia, a Lauria, in casa di un mio zio, egli stesso rovinato dalle vicissitudini delle rivoluzioni e dei cangiamenti di dinastia. Restai presso il conte di Crac fino a tanto che vissero quelle due sante donne che io amava. Appena, però, ebbi loro chiusi gli occhi per sempre, mi affrettai di sgravare il mio bravo zio dalla spesa del mio mantenimento e ritornai a Napoli. Avendo vissuto quasi sempre all’estero, o ad Altamura, il numero dei miei amici era molto limitato. Se taluno me ne restava, alcuno non si avvisò a stendermi la mano. Non si riconosce volentieri un uomo che ha il cappello sbiadito, gli abiti logori, e che può dirvi da un momento all’altro: “Non ho mangiato, prestami una piastra!„ Da parte mia, non feci nessun tentativo.

— Non avevate parenti, dunque, signor conte? gli chiese la sua danzatrice.

— Piccina mia, il povero non ne ha mai. Però una circostanza mi fece incontrare una