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gue, che mi affluiva alla testa, mi dava delle allucinazioni, delle vertigini, dei miraggi fantastici. Tentavo scacciare del mio spirito l’orrido pensiero della mia posizione, ma esso mi assediava, mi possedeva, e diveniva più pressante ad ogni versta che ci ravvicinava a Varsavia. Il pieno sole, l’aria libera, l’infinito cielo, il movimento e l’imponente linguaggio della natura, la vista dell’uomo, dei boschi, delle città, delle acque, la vita che spirava dovunque, mi facevano però ancora illusione. Io non era ancora in faccia al mio delitto, abbaruffandomi col carnefice. Ero in faccia alla società ed alla natura. Questa scappatoia della speranza doveva ben tosto svanire. Finalmente una sera, a dieci ore, arrivammo a Varsavia.
Se io non avessi lasciata questa città due mesi avanti, avrei creduto di entrare in una necropoli. Lo stato d’assedio pesava sugli abitanti, come uno spegnitoio gigantesco, che intercetta il suono, la luce, l’aria, limita lo spazio, sopprime la vita. Non una vettura, non un viandante nelle strade. Non si udiva che il passo delle pattuglie, ed il rombo gutturale, cadenzato delle sentinelle. Si sarebbe detto che i lampioni mandassero una fiamma a corruccio, tanto essi spandevano quella caliginosa e rossastra luce delle lucerne fumose. Nessuno strepito trapelava dalle case; non uno spiraglio, che lasciasse trapelare un raggio. Tutte le imposte e le persiane restavano chiuse. Passai dinnanzi alla mia casa: mi parve una tomba. Mi si serrò il cuore. Che faceva mia madre a quell’ora? Pregava, senza dubbio. Alcuni cani abbaiavano lontano lontano. Forse i Cosacchi li torturavano, prima di mangiarli.