Pagina:Petruccelli Della Gattina - Le notti degli emigrati a Londra, Milano, Treves, 1872.djvu/183

Da Wikisource.

glino che avevano raggiunto il fondo del pozzo lavoravano già, ed io udiva i colpi del martello, il rumore metallico del punteruolo risuonante sulla roccia. La banda, di cui io faceva parte, si fermò ai tre quarti della scesa, ad una galleria traversale che si prolungava.

Si lavorava già ad un pozzo interno scavato nel filone. Si praticava un buco di mina, battendo l’un dietro l’altro sullo scalpello, cui un terzo minatore sosteneva. Il macigno era duro, e scintillava sotto l’addentar dell’acciaio. In una galleria vicina, si trasportava il minerale abbattuto fino al sito dell’estrazione. Il luogo era schiarato appena. L’aria mancava, e la respirazione ne soffriva. Benchè più calda che alla superficie del suolo, l’aria era ancora pizzicante e viziata in quel dedalo inestricabile, ove si affondava e circolava. Il terreno, che scavavamo per profondar le gallerie, si sbricciolava, quando non incontravamo il piperno: quindi due pericoli, due catastrofi, che si rinnovellavano ogni settimana — degli sfondamenti imprevisti, talvolta provocati a disegno, che sotterravano i minatori; ovvero l’esplosione a contratempo di un cavo di mina, che li acciecava, li sfigurava o li uccideva. Il minerale, sminuzzolandosi, degenerava in fine polvere: arsenico, se era minerale di stagno; verderame, se era rame. Noi respiravamo dunque del tossico a piene sorsate. Se la stanchezza ci guadagnava, il caporale, sempre cupo e silenzioso, scaricava per di dietro un subisso di colpi. Se si cadeva spossati, l’intendente tratteneva i pochi kopeki di mercede, che l’intraprenditore della miniera accordava per vivere. Imperciocchè il Governo non somministra ai condannati che due