Pagina:Petruccelli Della Gattina - Le notti degli emigrati a Londra, Milano, Treves, 1872.djvu/235

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cresceva. Certo, se avessimo avuto un termometro, esso avrebbe segnato 40 gradi sotto lo zero. Metek non cessava dal batter i denti: Cesara ed io ci sentivamo colpiti dal mal del ghiaccio. Respiravamo di tempo in tempo, come di soppiatto, un boccon d’aria fresca, che ci increspava il petto con la crepitazione della tela che si lacera, e provocava un impeto di tosse insopportabilmente doloroso. Nessuna parte del nostro corpo restava esposta per un minuto solo al contatto dell’aria. Gli occhi s’injettavano di sangue. La slitta procedeva, avviluppata in una densa nuvola piombacea, proveniente dalle nostre esalazioni animali. La neve, restringendosi, scricchiolava, ed i fiocchi leggerissimi di vapore, prodotti dallo sprigionamento del suo calorico, si trasformavano in una miriade di pagliuzze ghiacciate che scoppiettavano nell’aria. I laghi gelati, sui quali volavano, erano numerosi e prossimi. Il ferro che toccavamo, bruciavaci le dita peggio che se fosse stato rovente; non potevamo servirci più dell’accetta, che sarebbe andata in frantumi al minimo uso.

Arrivammo così, dopo parecchi giorni di marcia alternati di riposo, ai piè dei monti, che chiudono all’ovest la vallata della Kolima.

Non avevamo nè carta della Siberia, nè bussola, nè alcuno strumento per dirigerci. Metek possedeva una memoria locale sorprendente, ed e’ trovava la via, esaminando gli strati di neve, che il vento forma, spirando nella medesima direzione — ciò che la gente del paese chiama la zastruga — , ovvero osservando la corteccia dei larici, la quale, in tutta la Siberia, è nera dal lato nord e rossastra da quello del mez-