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e della scherma. Per buona ventura, e’ non si avvisò di servirsi del revolver. Io parai a lungo, volendolo disarmare e prendergli così le renne in cambio della vita. Ma egli mi attaccò con rabbia, con acciecamento: io saltava a destra ed a manca. Ei credette che io mi avessi paura di lui, e divenne più accanito, più furibondo. Cesara uscì, e gridò:

— Guárdati, guárdati!

Lo Tsciuktscia, infatti, si abbassava per cacciarmi il batase nel ventre. Io non mi contenni più: un colpo di accetta gli aprì il cranio in due, e lo rovesciò fulminato.

Metek sopraggiunse.

Voi comprendete il resto.

Io ripresi il revolver rubato a Cesara, e mi impossessai delle renne e della slitta dell’indigeno.

Aggiogammo, come potemmo, cani e renne, e partimmo la notte stessa. Un’aurora boreale ci aiutò a tirarci dal letto dell’Anadyr, per evitare lo sdrucciolo a picco di una delle sue cascate gelate.

Il resto del viaggio si compiè senza accidenti umani, ma le difficoltà naturali ci opposero ancora mille ostacoli. Li superammo tutti finalmente, ed il 7 di marzo 1866 ci arrestammo all’imboccatura della Krusnaia, uno degli affluenti dell’Anadyr, a 300 verste dal mare.

Ci riposammo in quel sito. La contrada era divenuta sempre più selvatica. Gli alberi erano interamente scomparsi, la selvaggina presso a poco. Tenemmo consiglio. Bisognava continuare, od aspettare quivi lo scioglimento dei ghiacci?

Dopo aver bene riflettuto, pesate tutte le probabilità, considerati tutti i casi, ci decidemmo ad avanzare fino al filoFonte/commento: Pagina:Petruccelli Della Gattina - Le notti degli emigrati a Londra, Milano, Treves, 1872.djvu/376, ove l’Anadyr cessa di essere fiume