Pagina:Petruccelli Della Gattina - Le notti degli emigrati a Londra, Milano, Treves, 1872.djvu/341

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diera di Sua Maestà, mi condussero fedelmente — la mia sciabola, Demetrio ed il suo fucile compresi — fino a Scalea. La bandiera copriva la mercanzia.

Arrivammo a mezzodì, quasi al tempo stesso in cui Spiridione giungeva col cavallo e che la mia valigia capitava da Cosenza, mandatami dall’albergatore.

A Scalea pure avevo degli amici — un bravo giovanotto chiamato Alberto, che erasi trovato nelle fila degl’insorti. Appena che il vecchio padre, la giovane sorella ed egli mi videro arrivare, la fu una festa. Il fascio luminoso dei tre sorrisi mi rischiarò e mi riscaldò il cuore. Il vecchio mi abbracciò come se fossi stato il suo figliuolo, il giovanotto mi strinse la mano, la giovinetta mi inviluppò in uno di quegli sguardi che sono un poema più vasto e profondo della Divina Commedia. Tutto rideva in questa casa. Anche il cane di Alberto si levò sulle sue zampe e fregò il suo bel muso sul mio petto. Cinque minuti dopo, l’asciolvere era servito. E la conversazione camminava a vapore, così alla buona, come se fossimo stati in un palco del teatro di San Carlo. Ad un tratto, udimmo un rumore lontano come il gorgoglio delle acque di un fiume in mezzo della notte. Tesi l’orecchio per ascoltare. Serafina andò alla finestra.

— L’è la messa cantata che termina, disse ella: il popolo esce dalla chiesa.

La conversazione e l’asciolvere continuarono, ma il rumore aumentava e si avvicinava.

Alberto andò alla finestra alla sua volta, vi restò un momento, poi si precipitò nel cortile per assicurarsi se la porta fosse ben chiusa, e risalì estremamente pallido.