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nostro signore e della nazione, che si cela in casa vostra.
— Eh eh! fece Alberto voltando la cosa in celia. Incognito! una bestia di questa sorta qui dentro. Andate in casa del capitano piuttosto.
Questi impallidì e replicò:
— Io constato che voi resistete al nome del re e userò la forza. Popolo, diss’egli poscia, vengono qui per spingerti all’insurrezione contro il re, nostro augusto padrone; abbasso i traditori, a morte i giacobini!
Il popolo fedele, che fiutava l’oro della mia valigia — ahimè! non vi era che qualche vestito e delle cartacce — bruciando di amore per il trono, per l’altare, per la proprietà e per la famiglia, gridò, ruggì come un’eco terribile:
— Abbasso i giacobini! morte alla nazione!
L’era edificante. Io restava, colle braccia incrociate, dietro Alberto, e contemplava Serafina.
— Come l’è bella! mi dicevo, sentendo il sangue rifluire verso il cuore.
Il rossore, il pallore, si alternavano, come i fiotti del mare alle spiagge, sul sembiante della fanciulla. I suoi grandi occhi riflettevano il cielo ed avrebbero rischiarato la prigione di Ugolino.
— Andiamo a cercar l’accetta e atterriamo la porta, urlava la plebaglia rigenerata.
— Insomma, dissi io ad Alberto, dimanda a codesti bravi cittadini, che diavolo vogliono e per chi mi piglian dessi!
Alberto ripetè la domanda. Il giudice, scegliendo l’accento più ufficiale, dichiarò che io era il generale Ribotti, e che era suo dovere impedire la conflagrazione del regno.