Pagina:Petruccelli Della Gattina - Le notti degli emigrati a Londra, Milano, Treves, 1872.djvu/364

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micia sul petto, di guisa che il busto restava quasi nudo.

Un formicolamento, davvero penoso, arrovellava adesso tutto il mio corpo. E l’aquila si avvicinava. I nostri occhi, egualmente devaricati ed immobili, s’incrociavano, si penetravano. Io compresi alla fine che mi trovavo sotto una potenza magnetica feroce, che aumentava di secondo in secondo. L’aquila era a meno di cento metri lontana da me, silenziosa, ma col rostro terribile mezzo aperto, quasi avesse avuto bisogno di respirare più vivamente. I suoi circoli concentrici erano adesso talmente ristretti che sembravami la si lasciasse calare in linea retta, senza batter ala, del suo solo peso, e la si precipitasse sopra di me.

L’imminenza di quest’attacco imprevisto ed inaudito, mi fece ribalzare. Feci uno sforzo come se avessi avuto a sollevare un soffitto cadutomi sopra, e saltai in piedi, prendendo il revolver alla mia cintura. L’aquila si arrestò per un secondo, poi avanzò ancora. Io tirai su di lei, ed agitai il mio pastranello, violentemente. L’aquila si fermò di nuovo per un minuto circa, lasciandomi dibattere per forte paura, poi la fece come un salto indietro, e la vidi rialzarsi lentamente di nuovo verso il cielo, descrivendo le medesime curve che aveva descritte scendendo.

Essa si levò, si levò sempre. Io cominciai a non più distinguere il fulvo colore delle sue piume, poi i suoi membri, poi le sue ali, non ha guari come due vele latine. Essa si rimpiccioliva, si rimpiccioliva ancora. Io non scorgeva più il suo movimento, ma la vedevo perdersi nelle alte regioni, confondersi con i raggi luminosi, infine sparire affatto, fondendosi con l’az-