Pagina:Petruccelli Della Gattina - Le notti degli emigrati a Londra, Milano, Treves, 1872.djvu/58

Da Wikisource.

que, delle sciabole, dei pennacchi, dei vaghi vestiti per festeggiare la lotta. Felice chi aveva un fucile od una pistola: tutti avevano un cuore. Felice chi mi poteva ricevere nella sua capanna. Dico capanna: il castello, ahimè! era un altro affare. Una parola che io gettava, passando di galoppo nei villaggi, si propagava di campanile in campanile. Lo scampanío rispondeva alla campana a martello. Ove io gettava un grido, germogliavano soldati.

Incontrai le prime colonne dell’esercito del Sud, che il Governo chiamava a difesa della linea della Tisza. Strinsi la mano a Damjanich, colui che Klapka chiama l’uomo di ferro, l’energico comandante delle formidabili berrette rosse, il 9.° honved. Lasciando il Banato, egli diresse ai Serbi un proclama, in cui loro ordinava di starsene tranquilli, durante la sua assenza, e di rispettare uomini e proprietà, Magiari o Tedeschi, e concludeva:

«Se vi accadesse di non fare alcun caso delle mie esortazioni, se persisteste nei vostri conati sanguinarii e liberticidi, io vi giuro che devasterò le vostre contrade, e v’inseguirò fino a che esisterà sul suolo ungherese un solo Serbo; e allora, perchè non resti in Ungheria la menoma traccia della vostra razza traditora, ucciderò me pure».

Damjanich era Serbo.

Avrei voluto battermi sotto i suoi ordini, se non avessi avuto la fortuna di andare a combattere sotto quelli di Bem.

Seguii il Danubio dall’aspetto terroso e triste, che non era gelato, malgrado la temperatura di 20 gradi sotto lo zero, e rassomigliava ad un filo di rame un po’ ossidato sopra uno scudo d’acciaio riflettente la